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Il Jazz e la scuola

Riportiamo un estratto dell’intervista a Paolo Fresu, contenuta nel volume Il Jazz: un gioco da ragazzi di Kristian Sensini, a cui rimandiamo sia per l’intervista integrale al Maestro, sia per una rilettura critica del Jazz alla ricerca di presupposti didattici.

Ritieni che esistano nel Jazz delle “mentalità”, dei modi di fare e di essere, che possano essere trasmissibili in un contesto didattico ampio e generico come quello dell’Educazione Musicale di base della Secondaria di I grado?

Assolutamente sì. Del resto il Jazz e l’improvvisazione rappresentano un sistema mentale e un approccio che non solo può aiutare i ragazzi a capire meglio la musica, ma anche ad aprire loro la mente rendendola più elastica. Molti pensano che l’improvvisazione sia un fatto totalmente estemporaneo, quando invece questa necessita non solo di un processo di apprendimento organizzato e consequenziale, ma anche di uno studio rigoroso che parte dall’ascolto e passa attraverso la trascrizione degli a solo, per arrivare poi alla maturazione personale. Di fatto il Jazz è un idioma e, come per qualsiasi lingua, lo si apprende parlando con gli altri e poi affinando la conoscenza della grammatica e della sintassi. Una cosa è certa: chi studia una lingua a scuola difficilmente la parla in modo fluente. Diverso è per chi vive a contatto con delle persone madrelingua e possibilmente in un paese straniero. Magari parla meno bene ma si fa capire meglio e solo successivamente passa alla fase dello studio per affinare il linguaggio, arricchirlo nel vocabolario riuscendo così a comunicare in modo più facile e già ricco. Il Jazz è secondo me questo e personalmente io ho appreso del suono, dello swing e della progettazione non sui libri ma ascoltando i dischi dei miei maestri, che erano principalmente Miles Davis e Chet Baker. Mettevo i miei vinili a tutto volume in casa e, con la tromba, cercavo di rifare quello che facevano loro, non avendo avuto l’opportunità, intorno alla fine degli anni Settanta, di vivere a New York e dunque di poter andare nei club per sentire i miei idoli e magari di poterci poi suonare assieme – come aveva fatto Miles che, partito dall’Illinois con l’idea di incontrare Charlie Parker, girò per tutta New York alla ricerca del suo idolo…

Nel corso della sua evoluzione (relativamente recente) la Musica Jazz si sta trasformando poco a poco da “linguaggio” a “repertorio”, cosa ne pensi? Si va perdendo l’essenza di questa Musica? Questa trasformazione la sta allontanando dagli ascoltatori più giovani?

Non credo realmente che sia così. È piuttosto che si trasforma sia il linguaggio che il repertorio in quanto – benché alcuni nostalgici dicano – il Jazz è in continua evoluzione. Il linguaggio si modifica perché tiene conto di tutta la storia del passato. Per quanto non si stia forse inventando niente di nuovo (difficile dopo ciò che hanno detto i grandi del passato…), il linguaggio si modifica divenendo progetto. In questo senso l’utilizzo della tecnologia ha dato un importante contributo non solo all’evoluzione del linguaggio ma anche alla sua reinvenzione. L’elettronica e l’informatica sono diventati i nuovi strumenti per comporre, per pensare e per suonare e hanno modificato in modo sostanziale sia l’atto creativo che quello fruitivo. Da questo punto di vista sono convinto che, rispetto a prima e soprattutto agli anni Settanta, il Jazz si stia avvicinando anche ai giovani che vi trovano sonorità già vicine a loro. Inoltre il Jazz di oggi è la risultante di cento anni di storia e dunque non esiste più un solo Jazz ma tanti mondi diversi. Questo il pubblico lo sa e si avvicina al linguaggio di derivazione afro-americana senza quella paura di prima, cosciente di potervi trovare ciò che ama. Il repertorio è semplicemente cambiato. Non si attinge più solo agli standard e agli evergreen popolari di Gershwin o Cole Porter o ai grandi temi delle musiche da film o di Broadway, ma si lavora su materiale originale o sullo standard rivisto e rivisitato. In Italia poi, Paese ricco di tradizione musicale, si attinge a piene mani dal repertorio dell’Opera, quello partenopeo, dalla musica del Mediterraneo o quella di Sanremo. Insomma, il Jazz si sta semplicemente e naturalmente trasformando. Si trasforma, dunque, sia il repertorio che il linguaggio, nonché l’architettura di questa musica che, sempre più, viene metabolizzata, masticata e vomitata nel nuovo. Nuovo che è la risultante di questo lungo processo iniziato nei primi decenni del secolo scorso.

Ritieni che l’aspetto improvvisativo della musica sia da approfondire quando si è già acquistata la tecnica di base o pensi che un approccio improvvisativo alla musica possa essere prioritario e venire anche prima della scrittura/lettura e dunque insegnato ai ragazzi/bambini anche molto precocemente?

Io credo che la scrittura debba venire sempre dopo. Prima di questa c’è l’approccio con la musica e il fatto comunicativo. Io ho imparato il Jazz ascoltandolo, ancora prima che suonandolo. Oggi i tempi sono cambiati. Negli anni Ottanta moltissimi musicisti non sapevano leggere la musica perché l’avevano appresa sentendo i dischi nella casa dei loro genitori o nei club. Suonavano non solo benissimo, ma soprattutto erano liberi nel pensiero e nell’atto creativo. Oggi più o meno tutti i musicisti hanno studiato nelle scuole e nei Conservatori di Musica. Il Jazz si insegna nei Conservatori, quando io negli anni Ottanta fui letteralmente cacciato perché il mio insegnante scoprì che suonavo il Jazz. Non si può dunque generalizzare ma credo che la musica la si debba avere dentro e questa si insinua se la si respira da piccoli. La musica inoltre non è lo spartito, ma sono i suoni oltre che le melodie e il tempo. Tutte queste cose si scrivono successivamente per poterle fissare ma, all’origine, non hanno bisogno di un pentagramma.

Fai parte del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della musica, e nei programmi e nelle indicazioni ministeriali compare sempre più spesso la parola improvvisazione: pensi che ci siano margini perché tali indicazioni non rimangano solo sulla carta? Come mai a tuo parere l’insegnamento della musica avviene ancora in maniera “tradizionale”, ovvero lezione frontale basata sul libro di testo (con tutte le sue idiosincrasie) e molto incentrata sul rispetto di un repertorio e di una storiografia di stampo classico?

Si insegna nella scuola la musica in modo tradizionale perché i programmi sono vecchi e perché mancano gli spazi per la musica. Il compito del Comitato è proprio quello di indagare su come la musica possa essere più presente in tutte le scuole (compresi i nidi e le materne) e su come si possa trasmettere in modo naturale. Inoltre, indagare sui progetti validi che nel sistema di insegnamento del nostro Paese esistono, oltre che suggerire percorsi e valutarne di nuovi ed efficaci. Una volta un giovane, alla fine di un mio concerto, mi chiese se il Jazz aveva le note… Non era una domanda stupida! Lui voleva dire che, se il Jazz è una musica improvvisata, forse le note non le ha. Ecco, prima di avere le note scritte l’improvvisazione richiede un percorso di apprendimento che dev’essere nell’ascolto e nella condivisione. Solo successivamente vale la pena di porsi il problema della calligrafia. Per fare questo servono ovviamente competenze e tempo. Bisogna formare nuovi insegnanti che non siano solo dei buoni musicisti ma che facciano un lavoro introspettivo di studio su loro stessi, per capire come loro hanno appreso la musica e come possono insegnarla agli altri.

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